«La guerra nega l’umanità degli uomini poiché, alla fine, il vincitore non ha dimostrato niente tranne che la superiorità in forza e astuzia» affermava Raymond Aron, filosofo francese del Novecento e caporedattore di «France Libre», giornale francese in esilio a Londra negli anni ’40. Nell’opera Qu’est-ce qu’une théorie des Relations Internationales? (Rfsp 1967), Aron rivendica la specificità delle relazioni internazionali rispetto alla politica interna. La differenza risiede nella presenza di uno Stato centrale che detiene «il monopolio della forza legittima» (Max Weber). Condizione pressoché assente nella nostra «Casa comune», che non conta neppure su una gestione condivisa dei problemi che hanno profonde ricadute sulle nostre comunità. A dimostrarlo è il moltiplicarsi delle emergenze umanitarie innescate dall’incapacità, tutta umana, di bandire la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie; oltre che dai cambiamenti climatici e dall’instabilità politica ed economica in alcune regioni del mondo.
Un'opportunità per restituire dignità alla persona incontrata e per rinnovare il tessuto relazionale della comunità
In questo tempo di transizione, le relazioni internazionali non sono più qualcosa di estraneo alla realtà interna. Esse viaggiano sulle spalle delle persone che raggiungono il nostro territorio, sulle merci, i servizi e i capitali volti a soddisfare stili di vita. Questi ultimi messi in discussione dall’aumento d’intensità di una guerra iniziata ben otto anni fa, nel 2014, ma ignorata finché non ha intaccato i nostri interessi attraverso la scarsità di materie prime, il ritorno dell’inflazione che grava sulle famiglie e persone più vulnerabili e l’arrivo di migliaia di rifugiati in cerca di accoglienza presso il nostro territorio. La guerra, insieme alla pandemia, rappresenta una forza d’attrito che mette in evidenza l’insostenibilità della «globalizzazione dell’indifferenza» e ci concede la possibilità di ripensare il modo in cui abitiamo questa «casa comune».
Siamo tenuti a «osservare per conoscere» anziché intervenire con l’illusione di offrire soluzioni immediate ai problemi sociali. Una riflessione che accompagna i progetti di Caritas diocesana e che si è riproposta nell’accoglienza diffusa e solidale che ha l’obiettivo di rilevare le esigenze delle persone rifugiate e attivare la comunità intorno a queste ultime. Un percorso di conoscenza, gratuità e reciprocità avviato grazie alla valorizzazione di risorse già esistenti nella comunità (circa 70 le famiglie che hanno espresso la propria disponibilità ad accogliere). Ad oggi, Caritas diocesana accompagna circa 27 persone presso 13 nuclei famigliari nel territorio diocesano. Nello stesso tempo, il Centro Papa Francesco ha ospitato delle esperienze laboratoriali, conviviali e di insegnamento della lingua italiana di cui hanno beneficiato circa 40 persone rifugiate. L’accoglienza diffusa non ha la finalità di offrire risposte esaustive all’emergenza ancora in atto, bensì di promuovere un modello di accoglienza sostenibile dove la persona accolta diviene «elemento attivo nella vita sociale» della nostra città.
Quest’ultima chiamata ad essere comunità evangelizzatrice «che entra nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze» (Eg. 24). Si tratta di un’opportunità per restituire la dignità negata a chi viene accolto e per rinnovare il tessuto relazionale della nostra comunità, chiamata ad investire le migliori energie per affrontare il «cambiamento d’epoca» dove il territorio non è più soggetto ai limiti imposti dai confini nazionali, bensì a un rimescolamento tra il globale e locale che accorcia le distanze tra i centri e le periferie esistenziali.
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